La letteratura democristiana in Abruzzo - stralcio finale dello scrittore Olivieri




Erano gli ultimi suoi anni, mettiamo gli ultimi cinque anni ora non ricordo più con precisione, e lo scrittore Olivieri si mise a scrivere dei racconti brutti, sfilacciati. Uscivano pure sui giornali come elzeviri. Il Centro era pieno. 
Per tutta la vita aveva scritto dei racconti bellissimi che avevano fatto a gara a prenderseli, i giornali, per pubblicarli, e che gli avevano dato presso alcuni lettori di rango e lettori incalliti una straordinaria risonanza. Pure i lettori democristiani, chi più chi meno, quando capivano, lo applaudivano. E c'è da dire che anche qualche comunista, meno ortodosso, di sfuggita, senza farsi troppo accorgere, come mio zio scrittore, se capitava lo applaudiva, forse pure per fare i dipiù coi compagni (ché mio zio ormai l'avete capito pure voi). Di politici politici che gli facevano il filo pochi, per fortuna, ché i democristiani si immischiavano poco a 'ste cose e i comunisti normali lo guardavano con sospetto per le tematiche. D'altronde a Olivieri gli si diceva che era democristiano - gli era scita sta voce qua, ai tempi - ala Moro, perché scriveva racconti d'amore e personali e non s'interessava della politica, non protestava. 
Era trobadorico.
Certo a lui non glien'era mai fregato niente di confermare o smentire o parlarci sopra con più forza a queste voci che erano uscite, e si riteneva sopra di tutto un uomo disperato, un artista disgraziato, ché lo era davvero; e gli avevano staccato davanti alla faccia pochi assegni che molti poi s'era visto se n'erano volati via come niente o non si potevano manco incassare tutti e subito al banco. Molti erano scoperti. Gli assegni incassati regolarmente invece andavano a finire nelle bische e nelle sale da biliardo e nei pericolosissimi tornanti della roulette, e poi ovviamente anche nelle spese per vivere. Qui ci sarebbe da aprire una parentesi sulla discriminante tra le spese per vivere e quelle per non vivere (o per morire?). Ma non la apro. Basta così. 
Menomale che scriveva questi racconti bellissimi che nel frattempo gli davano linfa e gli avevano fatto fare un nome. Vedete: scrivere dei racconti bellissimi è una grande soddisfazione sul momento. Poi svanisce subito. Tutto. Sul fatto d'essersi fatto il nome, invece, lo capite anche senza essere portati per mano, poco importa. Che senso ha avere un nome nelle lettere italiane? Vieppiù, e aiutatemi a dire: che senso ha averne uno nelle lettere abruzzesi... Sarebbe importato di più farsi due soldi, semmai. Ma non se li fece.
Facendo la sua vita come tutti, accumulò mogli e figli, figlie e figliastri il che gli alienò ancora di più le simpatie pontificie; infine sperperò come tutti i propri talenti e quegli spicci che vuoi o no gli erano rientrati. Ebbe dei mali, alcuni più curabili, altri meno. Cadde in coma. Rinvenne per poco. Per vivere l'ultima stagione. Stava maluccio, s'affaticava con niente, come gli anziani, non poteva tanto fumare, due tiri al giorno, non tollerava più tanto gli altri (questo da sempre in realtà), mal sopportava il freddo. Anche scrivere allora a poco a poco divenne più un peso che 'na gioia. Mentre prima era contento di mettersi a scrivere che chiunque lettore se ne accorgeva, tra sé e sé diceva guarda questo quanto si diverte a scrivere mentre io qua vado a lavorare a mettere i tacchi sotto le scarpe in fabbrica... ora c'era più frustrazione, meno armonia (gli operai lo capivano quasi di più). 
L'ultimo libretto di racconti di cui parlo stasera, Un mio sorriso pesterà le tue lacrime, nacque in questo periodo, poi l'autore è morto, trovato incuneato vicino al lavandino del bagno colla testa contro la porta, ed è un libretto che si sente che c'è meno divertimento e più rassegnazione. La critica li considera testi brutti, ed ha ragione: lo scrittore si ripete, spesso concede troppo alla (propria) spavalda e tradizionale retorica, riempie alcuni vuoti d'invenzione con delle trovate di repertorio (nemmeno sempre di prima mano), recupera colla tecnica appresa negli anni sul campo insanguinato di battaglia che è il foglio bianco recupera per quanto possibile un barlume di sentimento. E' una vecchia gloria. Batte pugni nel vuoto. Chiunque legga questi ultimi "testamenti" intona un miserere. E non sembra esserci riscatto per il suo ultimo lascito letterario. 
Eppure, che vi devo dire?, sarà che sono sempre stato più attratto dalla lezione più difficile che da quella più facile... sarà che tanto amai i libri del giovane Olivieri, proprio in virtù della forza della sua invenzione, la purezza del suo estro geniale, la sua messa a disposizione e denudamento attraverso le parole... io oggi mi sento di amare allo stesso modo anche questa decina zoppicante e malnata di racconti di Un mio sorriso pesterà le tue lacrime, che confermano che Olivieri ha continuato, seppure in difficoltà fisica e morale, e acciaccato come un topo, ha continuato dopo tanti colpi dolorosi a fare della letteratura prendendo tutto dalla propria carne viva (morta) e non è colpa di questo grande artista se oltre ad essere arrivato vecchio, ha fatto per giunta una cattiva vecchiaia, e se è stato onesto con sé stesso e colla letteratura che faceva, non spacciandosi per supereroe della terza età, poeta di inesauribile vitalità e rinnovamento... ma bolso e caduco vecchiaccio di provincia, melassa polverosa, carne da buttare. E così s'è buttato pure lui, scrivendo - e questo è bellissimo - racconti brutti, dimenticabili, spenti, sfilacciati. E così, per finire, bisogna leggere secondo me il suo ultimo libro, un canto buttato e calpestato tra l'ultima vita e la prima rabbrividente morte... 
Grazie Olivieri. 


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